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crocifisso Un anno dopo il restauro e la collocazione vicino all’altare maggiore mi soffermo sul bellissimo crocifisso che si può ammirare nella nostra chiesa di Santa Maria di Mandria a Padova, in particolare sull’elemento figurativo posto sulla parte più alta dell’opera.

Realizzato in legno probabilmente agli inizi del 1900 da un artigiano rimasto sconosciuto, forse perché i documenti relativi alla sua commessa sono andati perduti, e successivamente messo in disparte nei locali meno frequentati della sacrestia, il crocifisso è ritornato alla “pietas” dei fedeli dopo un laborioso restauro eseguito da Silvano Soppelsa e voluto fermamente dal parroco don Lorenzo, che ha trovato parziale sostegno finanziario nella generosità dei suoi parrocchiani.Era il 7 aprile 2019 e quella sera eravamo numerosi nella nostra chiesa quando il Crocifisso, posto provvisoriamente nel mezzo della navata, aveva ritrovato la sua legittima sistemazione e tornava a far rivivere il sacrificio di Cristo a chi si rivolge all’Uomo inchiodato alla croce con l’occhio della fede.

Tralasciando le peculiarità artistiche dell’opera che restano di competenza degli esperti d’arte quale io non sono, mi preme porre l’attenzione sull’elemento figurativo posto in cima al palo principale, proprio sopra la scritta che, secondo il vangelo di Giovanni (19,19), esplicitava il motivo della condanna e che già al suo ingresso in chiesa era stato unanimemente riconosciuto come un volatile ma nello specifico ricondotto a molte specie di uccelli. Indubbiamente si trattava di un pellicano: presto dovettero convincersene anche coloro che all’inizio giuravano trattarsi di colomba o aquila o cigno o altro ancora. Il collo lungo e circonflesso, il becco, le enormi ali, i piccoli pulcini ai piedi, non lasciavano dubbi.

Un pellicano, dunque. Ma perché il pellicano?

Questa specie di uccello non è solamente uno tra i numerosi simboli che rimandano alla figura di Gesù Cristo, ma ne è forse, dopo l’Agnello, la rappresentazione più significativa e commovente: da molti secoli infatti costituisce un simbolo dell’Eucaristia.

Il pellicano europeo era conosciuto già nell’antichità: i greci lo indicavano col nome di pélekos (da pelecus, “ascia” con riferimento alla forma smisurata del becco), ed anche onocròtalos perché trovavano strano (krotos) il suo grido che rassomigliava, dicevano, al raglio dell’asino (onos). Vive nell’Europa orientale, nell’Asia sud occidentale e nel nord dell’Africa. È un uccello maestoso, difficile da incontrare, dotato di un becco lunghissimo e largo. Il fatto che i pellicani adulti curvino il becco verso il loro petto per dare in pasto ai loro piccoli i pesci che trasportano nella sacca posta nella porzione inferiore del becco e le piume del loro soma, spesso tinte di rosso per il sangue delle prede, indusse alla credenza che i genitori di tale specie di volatili usassero lacerarsi il torace per nutrire i pulcini col proprio sangue e la propria carne. E ancora, sempre per un’altra analoga leggenda, sembra che una volta, proprio mentre un pellicano curvava sul petto il becco per estrarne cibo, i suoi pulcini lo colpirono agli occhi. Il pellicano, estremamente contrariato e adirato li uccise, ma poi, pentito e addolorato per la loro morte, dopo tre giorni li fece ritornare in vita squarciandosi il petto e inondandoli del proprio sangue che possedeva il potere di ridare la vita.

Dalla credenza al mito il passo è breve e così il pellicano, in passato e anche ai nostri giorni, è il simbolo dell’abnegazione con cui si amano i figli. Più in generale, un “emblema di carità”.

È probabile che tale credenza risalga già al tempo della civiltà egizia: l’immagine di un pellicano che sacrifica se stesso in favore dei propri piccoli (Gerd Heinz-Mohr Lessico di iconografia cristiana Milano I. P. L. p. 279) è stata trovata su un anello di bronzo venuto fuori da scavi archeologici eseguiti nel territorio delle piramidi.

 

pelmandria1Il simbolismo cristiano non rimase indifferente al significato profondo di tale leggenda: era facile vedere il genere umano morto a causa del peccato (nella leggenda incarnato dai pulcini che colpiscono colpevolmente gli occhi del padre) ritornare in vita grazie al sangue di Cristo a somiglianza del sangue che il pellicano sparge per i suoi piccoli.

Forse il primo scrittore cristiano che introdusse questa simbologia nel culto fu Melitone vescovo di Sardi in Lidia, morto nel 190, che nella sua opera in lingua latina “Clavis scripturae” disserta sulla liceità dell’uso dei simboli nel culto cristiano. Ricordiamo come il cristianesimo primitivo, provenendo dall’ebraismo, doveva per forza confrontarsi con la cultura pagana che invece nell’arte come nella letteratura, si affidava spesso all’ingegno creativo dell’uomo.

 

In seguito farà testo un commento da parte di Sant’Agostino al Salmo 102 (101), vv. 7-8: “Sono diventato come un pellicano del deserto / sono simile a un gufo tra le macerie”. Da sottolineare il fatto che il salmo 102 è l’unico passo delle Sacre Scritture in cui si fa riferimento al pellicano che il salmista assume a simbolo della propria solitudine dolorosa. Agostino commentò il salmo in una omelia ad Ippona nel 395 durante il periodo pasquale e in quel frangente fece riferimento alla leggenda seppur con doverose riserve:

“Né da parte nostra,- dice Agostino - dobbiamo tacere quel che si racconta ed anche si legge dell’uccello chiamato pellicano pur evitando affermazioni temerarie non dobbiamo però tacere quel che ne han voluto che si leggesse e si raccontasse quanti hanno scritto di lui. Da parte nostra ascoltate la spiegazione in maniera da considerarla ben appropriata, se è vera, e da ritenerla senza alcun valore se è falsa” (…) “può darsi che tutto questo sia vero come può darsi che sia falso; tuttavia se è vero, voi vedete come si adatta in maniera appropriata a colui che con il suo sangue ci ha ridato la vita”. Ed ancora: “Questo uccello pertanto, se è vero il relativo racconto, presenta una grande somiglianza con la carne di Cristo, per il cui sangue abbiamo ricevuto la vita”(Sant’Agostino. Opere-esposizioni sui salmi a cura di Mariucci e Tarulli, Roma Città Nuova editrice 1976, pp. 525-27).

Si capisce comunque che ad Agostino la leggenda del pellicano piaceva perché, seppure con doverosa prudenza dettata dall’ufficio pastorale, messa in parallelo con il sacrificio di Cristo, vi trovava valide e significative corrispondenze dottrinali e teologiche. Ciò che importa per l’uomo, sottolineava Agostino, è mettere in pratica il significato di un’immagine, senza affaticarsi a indagarne la veridicità.
Il pensiero di Agostino non poteva non influenzare i teologi, gli studiosi e gli artisti che si sarebbero succeduti nei secoli seguenti: il pellicano farà la sua comparsa in varie opere d’arte cristiana e, cosa molto importante per quei tempi, verrà presentato in moltissimi “bestiari” redatti nel periodo medievale. I “bestiari”, opere del tutto incomprensibili oggi alla luce delle nostre acquisizioni scientifiche, si proponevano di aiutare i lettori a comprendere il significato recondito insito nel mondo animale, specchio, come quello inanimato, di verità spirituali e di insegnamenti morali. Ad alcuni filosofi di quel periodo l’universo appariva come un enorme repertorio di simboli e di continua manifestazione di Dio e su questi temi verteva un’aspra diatriba filosofico-teologica che ebbe anche delle vittime illustri come Giordano Bruno ed altri. La natura, secondo costoro, non era altro che un libro sacro scritto da Dio.

Tornando al nostro pellicano ed al significativo accostamento tra leggenda e sacrificio eucaristico, scopriamo che finanche Tommaso d’Aquino, grandissimo filosofo cristiano emblema del pensiero razionale che si confronta con la fede nel Cristo rivelato, rimase colpito dalla singolare analogia tra la leggenda del pellicano e l’Eucarestia. Nell’Adoro te, uno dei cinque inni eucaristici dedicati al Corpus Domini composto nel 1264, San Tommaso invoca la misericordia di Gesù in questi termini: Pie pelicane, Jesu Domine / me immundum munda tuo sanguine / cuius una stilla salvum facere totum mundum quit ab omni scelere. (Pellicano pieno di bontà, Signore Gesù, / lava le mie colpe col tuo sangue/ di cui una stilla sola basta a rendermi tutto puro da ogni peccato). Da allora durante gli ultimi secoli del Medioevo, ma anche in seguito, la figura del pellicano si mostra in bella vista sui crocifissi, sopra l’iscrizione INRI, proprio come nel crocifisso della chiesa di Mandria, metafora dell’azione purificatrice del sangue di Cristo sparso per i peccati degli uomini. Come il pellicano nutre con il suo corpo i suoi piccoli, così Gesù, “nostro pellicano”, come lo chiama Dante (Par. XXV 113) ci nutre con la sua carne ed il suo sangue, in un supremo atto d’amore.

È per questo che troviamo l’immagine del pellicano anche nelle rappresentazioni della Carità.

Per chi guarda allora con l’occhio della fede, il pellicano è un importante simbolo cristologico perché rimanda al messaggio d’amore del Cristo crocifisso che donandosi all’umanità istituisce l’Eucaristia che da sempre e per sempre costituisce il dono più grande ricevuto dagli uomini: Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici (Gv 15,13).

La bella favola del pellicano, sopravvissuta nei secoli fino ai giorni nostri, serve ancora ad ammonire il credente che bisogna camminare nell’amore sull’esempio del Cristo che ci ha amati al punto da morire per noi e ci redime col suo sangue.

Antonino Scuderi

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