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Comunità

finecherivelaChi ha vissuto l’esperienza di accompagnare persone negli ultimi momenti della vita sa bene che si muore come si è vissuto. Perciò il nostro modo di guardare alla fine della vita rivela il modo in cui stiamo vivendo, ma dice molto anche della nostra immagine di Dio. Alcuni vedono la morte come la conclusione drammatica dell’esistenza, altri riconoscono in essa un passaggio necessario per continuare a vivere nell’eternità, quell’eternità che per il cristiano è iniziata nel giorno del battesimo.

Cosa c’è dietro questi modi diversi di intendere la morte? Sono probabilmente espressioni di come percepiamo la vita: alcuni la considerano un possesso da difendere gelosamente, altri come un tempo che siamo condannati a vivere, altri forse come un dono per cui ringraziare e da restituire.

Il Vangelo di questa domenica mette in evidenza attraverso la figura dei Sadducei un modo molto comune di intendere la morte e ne svela le motivazioni. I Sadducei sono innanzitutto ebrei che non credono a molte cose: non credono agli angeli, non credono agli spiriti, accettano solo i primi cinque libri della Bibbia, e soprattutto non credono nella risurrezione dai morti! Sono decisamente pragmatici e hanno ridotto all’essenziale le cose in cui credere: non c’è tempo per queste cose! Sono fortemente aggrappati ai loro beni e hanno paura di perderli.

Forse per questo motivo ironizzano, come si vede dal racconto che sottopongono a Gesù, un istituto, quello del levi-rato, estremamente importante per un ebreo. La legge del levirato imponeva infatti al fratello di un uomo, defunto senza lasciare figli, di prendere in sposa la moglie del fratello per dare una discendenza al fratello morto. Non si tratta di un capriccio, ma di un modo per permettere al defunto di vedere l’avvento del Messia attraverso gli occhi della sua discendenza. Questa pratica ovviamente non è ben vista dai Sadducei perché implica l’eventuale ripartizione del latifondo tra gli eredi, minacciando in tal modo il valore della proprietà.

I Sadducei, come forse anche noi, non si sono resi conto che quello che c’è nella loro vita, anche la loro proprietà, è un dono che può essere perso in qualunque momento. E se tutto è un dono, tutto rimanda a colui che è la fonte del dono. Ecco perché il modo in cui guardiamo alla morte svela anche quale immagine di Dio abbiamo. Tutto appartiene a Dio, noi stessi apparteniamo a lui. Ma tutto quello che è in Dio è vita perché in Dio non c’è la morte.

Il nostro destino si gioca allora sul riconoscimento di questa appartenenza: se siamo di Dio, se siamo in lui, se appar-teniamo a lui, non ci può essere morte nella nostra vita. Non ci può essere morte vuol dire che non trovano spazio in noi tutti quegli atteggiamenti di morte che sono l’invidia, la critica, il giudizio, la violenza, l’odio…

La meditazione sulla morte ci porta allora a riconsiderare il nostro rapporto con le cose e a prendere consapevolezza di quale sia il nostro rapporto con Dio.

Gaetano Piccolo

leggi la meditazione completa su https://cajetanusparvus.com/2022/11/04/girati-un-attimo-guardare-la-vita-a-partire-dalla-fine/

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noivoltaLe elezioni si terranno la mattina di Domenica 6 Novembre 2022 presso il Circolo NOI San Martino di Voltabrusegana dalle 9:00 alle 11:00.

La votazione è possibile per i soli soci maggiorenni, ma iscriversi è un attimo!!

Se vuoi informazioni, hai domande o desideri parteciapre all'avventura del nuovo direttivo scrivi o telefona a Roberta, cell. 3393498087

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vistiQuando attraversiamo periodi di ansia, quando siamo davanti a situazioni complicate, da cui non sappiamo come uscire, siamo visitati da sogni in cui ci sentiamo precipitare in un abisso senza fine. È la voragine dell’incertezza. È la paura di cadere nel vuoto, da cui ci sembra impossibile risalire. Sono i momenti della vita in cui ci sentiamo irrimediabilmente persi.

Gerico è l’immagine di questo abisso in cui tutti prima o poi precipitiamo, perché non ci sentiamo mai del tutto all’altezza delle situazioni che abbia-mo davanti. Gerico, infatti, è la città sprofondata sotto il livello del mare, un luogo quindi che nel linguaggio biblico diventa metafora di quell’abisso in cui l’uomo precipita, ma dove continuamente il Signore scende per rag-giungerci e tirarci fuori. Dio si ricorda (probabile significato del nome ‘Zaccheo’) anche di chi si sente irrimediabil-mente perso.

È possibile sperare? Zaccheo ci viene presentato da Luca proprio come l’uomo senza speranza, colui che sembra non avere vie d’uscita. È un pubblicano, ovvero un peccatore, considerato pubblicamente impuro a causa del suo lavoro di esattore delle tasse, eppure, nel capitolo precedente, persino per il pubblicano, recatosi al Tempio, c’era stata una possibilità di perdono: se n’era andato giustificato.

Zaccheo ci insegna che anche quando abbiamo un grande desiderio che ci spinge, dobbiamo fare comunque i conti con la realtà, che talvolta ci impedisce di realizzare immediatamente quello che vogliamo. Davanti agli ostacoli che incotnra, Zaccheo avrebbe anche potuto ragionevolmente perdersi d’animo, avrebbe potuto rinunciare al suo desi-derio. Avrebbe persino avuto la possibilità di autogiustificarsi. Non era del tutto colpa sua se non aveva potuto vede-re Gesù. La vita ci offre sempre una scusa per rinunciare ai nostri desideri.

Se il desiderio è autentico si trasforma però in audacia e trova delle strade originali e creative. Zaccheo sale su un albero, proprio come fanno i bambini. Si rende in qualche modo ridicolo. Si espone.

Zaccheo finalmente viene visto. Gesù alza lo sguardo. E in quello sguardo di Gesù, Zaccheo non trova un rimprovero, come forse si aspettava e come la gente sperava. In quello sguardo trova accoglienza e perdono. Gesù rimette Zac-cheo dentro le relazioni. Gli chiede di entrare nella sua casa. Ora Zaccheo vede Gesù e soprattutto è visto come uo-mo. Il perdono è già avvenuto e in modo assolutamente gratuito.

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specchiopreghieraLa paura dell’imperfezione
Il fariseo di questo testo del Vangelo non sopporta la sua imperfezione. Non vuole neanche sentirne parlare. Ha paura di sbagliare. E nel profondo sa di poterlo fare. Sa quanta energia sta impegnando per non vedere il suo limite. Per questo motivo sposta la sua imperfezione sugli altri.
Come noi, anche il fariseo si illude che, spostando l’imperfezione sugli altri, la allontanerà da se stesso. La consegna agli altri, pensando che così se ne potrà liberare. Ricordati: quello che stai consegnando agli altri, è proprio quello che ti appartiene!

Lo specchio della preghiera
Quella preghiera che nei versetti precedenti era il luogo del grido della vedova verso il giudice iniquo, qui diventa il luogo in cui venir fuori per quello che siamo: dimmi come preghi, e ti dirò chi sei! Prova ad ascoltare come preghi e capirai tante cose di te. Il fariseo usa per esempio la preghiera proprio come lo specchio magico della strega di Bian-caneve: usa la preghiera per essere confermato nell’immagine positiva di se stesso. Anche coloro che non pregano, usano comunque il loro dialogo interiore come luogo di conferma e di approvazione.

Esagerazioni
Nella sua preghiera o nel suo dialogo interiore il fariseo esagera quei comportamenti che lo confermano nella sua idea di perfezione, illudendosi così di allontanare e di non vedere il proprio limite: il fariseo dice di digiunare due volte alla settimana, mentre il libro del Levitico (al cap. 16) chiedeva di digiunare solo una volta l’anno, nel giorno dell’espiazione; il fariseo dice di pagare la decima su tutto ciò che possiede, mentre la legge mosaica chiedeva di pa-gare la decima solo su ciò che si produce.

Riconciliazione
Ecco cosa vuol dire dunque andarsene riconciliati oppure no: il pubblicano è riconciliato con il suo limite, con la sua imperfezione e con il suo peccato. Proprio perché lo riconosce, può veramente consegnarlo ed esserne liberato. Ha scoperto che «il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato» (Sal 33,19)
Il fariseo non se ne va riconciliato perché non si è guardato dentro, non ha riconosciuto ciò che veramente si porta dentro, proietta sugli altri ma non si libera dal suo peso, continua a portare con sé la fatica di dover vivere nascon-dendo ciò che è veramente. La vita del fariseo è una vita non riconciliata. Isolato nel suo Io, il fariseo non troverà mai nessuno con cui condividere la sua paura di non essere perfetto.

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midentiUna delle esperienze più scandalose per il credente è il silenzio di Dio: continuare a chiedere senza sentirsi ascoltati. Eppure le letture di questa domeni-ca ci rassicurano che nessun grido rimane inascoltato davanti a Dio. Le nostre mani però si stancano, non riusciamo a tenerle protese verso il cielo per troppo tempo. Abbiamo bisogno di essere sostenuti, aiutati, perché da soli facciamo fatica a sostenere il peso della preghiera.

È esattamente quello che avviene a Mosè nel passo dell’Esodo che ascoltia-mo in questa domenica: Mosè prega con le mani alzate al cielo mentre Gio-suè combatte. È un’immagine della preghiera che sfugge a ogni spiritualizza-zione disincarnata: mentre Mosè prega, Giosuè combatte. È un invito a non separare la preghiera dalla vita: non ci si affida a Dio, rinunciando a lottare! La preghiera non ci esime dall’impegno responsabile e coraggioso nelle si-tuazioni della vita.

Mosè non ce la fa da solo a sostenere la fatica di pregare, ha bisogno di es-sere sostenuto: sono poste delle pietre sotto le sue braccia e alcuni lo aiuta-no a non abbassare le mani. Anche noi abbiamo bisogno di strumenti solidi e ben fondati su cui appoggiare la nostra preghiera (tutto quello che la storia e l’esperienza di altri ci ha consegnato), ma abbiamo bisogno anche del sostegno della comunità, con cui preghiamo, da cui siamo sostenuti e da cui siamo accompagnati. La preghiera non è mai un fatto solo personale. Nel tempo della preghiera abbiamo bisogno di rimanere saldi in quello che abbiamo imparato e che crediamo fermamente (cf 2Tm 3,14).

Quando non ci sentiamo ascoltati, ci arrabbiamo, perché un nostro bisogno, che consideriamo importante, non tro-va risposta. Forse per questo Gesù, commentando la parabola della vedova che chiede giustizia, ci invita a non stan-carci, letteralmente a non incattivirci. Anche davanti al silenzio di Dio, quando ci sembra che la nostra preghiera non trovi risposta, possiamo sentirci frustrati, e questo genera rabbia. È importante perciò ricordarci quello che il Salmo 120 ci suggerisce: «Non si addormenterà, non prenderà sonno il custode d’Israele». (Sal 120,4)

La vedova è anche immagine di quella comunità a cui Luca si sta rivolgendo. È una comunità che attraversa il tempo della prova e che vive l’esperienza dell’attesa. È il tempo della persecuzione, forse anche il tempo della delusione. C’è una preghiera in questo tempo che sembra inascoltata. Questa comunità ha paura che Dio non ci sia, teme di essere abbandonata, di rimanere sola, come una vedova! A quella comunità, nella quale anche noi ci possiamo rive-dere, il Vangelo ricorda di non smettere di pregare, perché non c’è nessun grido che resti inascoltato davanti a Dio.

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riccIl profeta Amos ci costringe a esplorare l’ambito delle nostre relazioni, dove a volte abbiamo usato bilance false (Am 8,5), abbiamo cioè soppesato in modo diverso quello che era nostro e quello che apparteneva agli altri, abbiamo cercato forse di guadagnarci ingiustamente, pensando prima di tutto ai nostri interessi; abbiamo aspettato il momento giusto per comprare il più debole (Am 8,6), abbiamo aspettato il momento in cui l’altro era in difficoltà per approfittarne, magari per prenderci finalmente la nostra vendetta; abbiamo venduto persino lo scarto della nostra vita (Am 8,6), abbiamo dato all’altro quello che per noi non era importante, abbiamo fatto finta di essere generosi con quello che per noi non aveva alcun valore.

Le parole di Gesù nel Vangelo di questa domenica ci ricordano che prima o poi arriva per tutti il momento in cui dobbiamo rendere conto, non solo come singoli, credo, ma anche come Chiesa e come umanità. La domanda di fondo che oggi la liturgia ci mette davanti è che cosa ne sto facendo della mia vita? Come sto am-ministrando questa vita, questo tempo, quello che è stato messo provvidenzialmente nelle mie mani?

Non sappiamo se l’amministratore della parabola sia effettivamente disonesto o se sia solo considerato tale nell’opinione di coloro che hanno subito la sua amministrazione, ma in realtà questo appellativo dice qualcosa di più profondo: siamo tutti amministratori disonesti, perché usiamo come nostro qualcosa che non lo è. Nella nostra vita infatti tutto è un dono, un dono nel senso radicale, è qualcosa cioè che non ci appartiene.

Chi può dire di possedere veramente qualcosa, cioè di esserne proprietario e padrone? Tutto ci può essere tolto in qua-lunque momento della vita: le relazioni, gli affetti, il ruolo, la vocazione, la salute, la vita stessa… andiamo avanti illudendoci di essere padroni e ci accorgiamo invece che siamo solo amministratori! E ci è dato un tempo, più o meno lungo, per non sperperare. Forse il senso della vita sta proprio qui: comprendere come amministrare nel modo migliore quello che è stato messo a mia disposizione. Gesù lo dice chiaramente: siamo amministratori di una ricchezza disonesta, di una ricchezza altrui! (Lc 16,11-12).

Che sia disonesto o meno, questo amministratore deve affrontare la situazione. E proprio nella crisi, scopre il senso della vita. In quel frangente infatti potrebbe continuare a rubare, a prendere per sé, a mettere da parte. Capisce invece, proprio in quel momento, che il senso della vita, quello che permette di amministrare bene, è condonare, l’azione cioè del per-dono, dare all’altro senza che ne abbia merito, togliere un peso dalla vita dell’altro quando non se lo aspetta. In fondo la prima cosa che Dio ci chiede di fare con la nostra vita non è quella di essere giusti, ma di essere misericordiosi. L’ammini-stratore disonesto viene lodato non per la sua correttezza, ma perché ha scelto la via della generosità: si è creato un futuro, usando la sua vita per condonare i debiti che gli altri hanno contratto!

O decidiamo di servire Dio o diventiamo schiavi della ricchezza! (Lc 16,13)
Sono due modi diversi di vivere: chi sceglie di servire la ricchezza è colui che vive nell’illusione di guadagnare, ma proprio in quel momento diventa schiavo, attacca il cuore a quello che domani potrebbe non esserci più. E la ricchezza, cioè pos-sedere qualunque cosa (non semplicemente il denaro), è il primo gradino che, come dice Sant’Ignazio negli Esercizi spirituali, il Nemico ci fa percorrere verso la perdizione, dopo la ricchezza, infatti, viene subito la vanagloria e poi la superbia. Chi invece sceglie di servire Dio è colui che riconosce la fonte di ogni dono, comprende di essere amministratore e perciò è una persona libera, pronto a restituire ciò che ha ricevuto in qualunque momento gli sia richiesto.

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disvitaNon possiamo non decidere! Che si tratti delle incombenze più banali o delle scelte più significative, ci troviamo continuamente davanti all’esigenza di prendere delle decisioni. A volte prendiamo decisioni sulla scorta dell’emotività per poi pentircene molto presto, altre volte non sempre riusciamo a decidere in maniera radicale, ma cerchiamo facilmente dei compromessi; talvolta ci sentiamo bloccati, irretiti, incapaci di scegliere liberamente.

Questa dimensione fondamentale della vita costituisce necessariamente la base anche della vita spirituale, che consiste nella decisione di seguire il Signore.

Il discernimento dunque non può essere solo un accessorio o un optional della vita spirituale, il discernimento è la vita spirituale stessa, la consapevolezza cioè di quello che Dio sta operando in noi per poterlo accogliere. Questa relazione tra discernimento e sequela di Gesù emerge dalla struttura stessa del testo del Vangelo di questa domenica: la pericope inizia e finisce con le parole di Gesù sulla sequela («non può essere mio discepolo…» cf Lc 14,26 e 33), ma queste parole formano una cornice che contiene significativamente due esempi di discernimento: l’uomo che deve costruire una torre e il Re che deve andare in battaglia. Il discernimento quindi è il cuore della sequela.

Ci sono infatti diversi modi di vivere la sequela e talvolta ci possiamo anche illudere di seguire Gesù. Nel testo infatti Gesù impone un cambiamento di preposizione: molte persone andavano verso (pros) di lui, ma Gesù precisa che il discepolo è colui che va dietro (opiso) il maestro. Andare verso Gesù significa andare da lui secondo le nostre necessità, senza però fare mai la fatica di andare dove lui va o di stare dove lui si ferma. Andare verso Gesù significa vivere una fede esteriore, che però non si compromette mai. Andare verso Gesù non significa stare con lui: si può andare verso Gesù continuando a conservare i propri criteri, le proprie ragioni, il proprio stile di vita.

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SERATA DEL 24 SETTEMBRE 2022 - TUTTO ESAURITO

Per le serate del 16-17-18 Settembre 2022 l'accesso ai luoghi della sagra ed allo stand gastronomico sono liberi e NON è necessaria la prenotazione.

Per la sola serata del 24 Settembre 2022 dedicata al Pesce Fritto è OBBLIGATORIA la prenotazione (anche per l'eventuale asporto), compilando il form qui sotto o contattanto il numero telefonico 351.7722297 (attivo dalla settimana prima). Saranno realizzati 2 turni di servizio (19.00 e 20.30) più eventuali asporti. Si raccomanda la massima puntualità in particolare per il turno delle 19.00 per evitare ritardi ed inconvenienti al turno successivo.

Le prenotazioni devono essere eseguite entro la serata di giovedì 22 Settembre 2022.

ATTENZIONE: Tutti i campi del modulo sotto devono essere compilati (altrimenti non si riesce ad inviare).

Grazie della collaborazione.

SERATA DEL 24 SETTEMBRE 2022 - TUTTO ESAURITO

sagravolta2021

Utilizza il modulo sopra per prenotare il tuo posto alla Sagra di Sabato 24 Settembre 2022.

 

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